L’altro giorno è ‘uno spettacolo di marionette senza fili per adulti’. Così c’è scritto sulla locandina. È vero: se c’è una cosa che manca, in questo spettacolo, sono effettivamente i fili. Le marionette sono tenute in piedi con le dita, gli attori non hanno microfoni con i fili e non ci sono nemmeno le corde con cui si apre e si chiude il sipario. Il tendone resta aperto, e la maggior parte delle battute sono dette al tavolo. Un tavolo che non è da casa e non è da bar, con due sedie ai lati e un rullo di carta sopra, che fa da scenografia. C’è anche una cornice di legno intorno al rullo, e tutti i disegni e le marionette e le comparse – anche quelle animali – sono fatti a mano.
Se non avete capito niente della scenografia è giusto così, perché non c’è niente da capire: bisogna andare a vederlo, quello che si sono inventati le menti del Teatro Elettrodomestico. Sono Eleonora Spezi e Matteo Salimbeni, insieme a Pablo Noriega, che non si vede ma si sente.
Si sono inventati qualcosa di davvero geniale e difficile da definire, mettendo insieme un sarcasmo quasi grottesco con la disillusione di una specie vivente in generale e forse di una generazione in particolare.
Mancano i fili, dicevamo: ecco, soprattutto ne manca uno, il filo logico. Ed è questa l’intuizione geniale della rappresentazione. La marionetta senza fili vive tre volte su quel tavolo, in tre esistenze parallele, tutte abbastanza atipiche. Il pubblico resta smarrito, sospeso in un’atmosfera a metà tra l’ansia di quello che sta per succedere e la certezza, in fondo, che non succederà niente. A parte l’assurdo, ovviamente.
Siamo come incantati a guardare una bomba a orologeria che non fa che ticchettare insistentemente, a volte illuminandosi anche con qualche pericolosa scintilla, ma senza mai esplodere. Se siete abituati a questa sensazione, allora sapete bene che l’assurdo messo in scena dal Teatro Elettrodomestico è quanto di più realistico si possa architettare.
Entrando nella vita di un protagonista senza nome, a cui accadono quotidiane banalità ma anche, e soprattutto, straordinarie assurdità, ci rendiamo conto della follia che si nasconde in tutto ciò che per consuetudine definiamo regolare, o di cui ormai non ci stupiamo più.
Alla fine è quasi liberatorio realizzare che quella marionetta di pezza con la voce argentina ci assomiglia più dell’immagine che ci siamo creati di noi stessi e dei nostri simili. È più vera quell’assurdità che vive lui – lui, con due dita dietro al cranio e delle calamite che gli reggono gli occhi – che la nostra apparente normalità.
Liberatorio ma anche grottesco, quando poi iniziano a sorgere dubbi: a quante assurdità ci siamo abituati? Quale normalità abbiamo accettato? E a quale ci ribelliamo, pensando di uscire da un sentiero segnato da altri? Soprattutto, sappiamo ancora distinguere la normalità dall’assurdo?