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Don Giovanni sono io

Riflessione su due spettacoli andati in scena al Teatro Romano di Fiesole (FI) nell’ambito dell’Estate Fiesolana 2021

Don Abbondio sono io
affacciato alla finestra
a guardare le macerie
a contare quel che resta

Questa frase me la dice sempre Brunori Sas, nel suggestivo abitacolo della mia Panda, quando ascolto per l’ennesima volta quel suo album così puntuale da diventare quasi un oracolo.

La mattina qualcuno legge l’oroscopo, sul giornale o sul telefono, qualcun altro interroga il cielo, interpretando l’equilibrio tra luce e nuvole per sapere come andrà la giornata. Io ascolto Brunori. Ci sono malattie peggiori.

L’ultima volta che me l’ha detta, però, mentre anticipavo le parole della canzone nella mia testa, avevo confuso Don Abbondio con Don Giovanni. Ora, a parte il titolo di ‘don’, i due non hanno proprio niente in comune, e a dire il vero anche quello stesso ‘don’ è di natura parecchio diversa.

La confusione era dovuta al fatto che, nel giro di una settimana, ero stata due volte al Teatro romano di Fiesole, entrambe per vedere uno spettacolo su Don Giovanni: uno di e con Michela Murgia (Don Giovanni, l’incubo elegante), uno di e con Alessandro Riccio (Ti racconto Don Giovanni). E anche questa è un’endiadi piuttosto assortita.

Ambedue, pensando che il protagonista di uno dei capolavori di Mozart non poteva certo salire sul palcoscenico senza un accompagnamento musicale, si sono fatti affiancare da Giancarlo Palena alla fisarmonica la prima, all’ensemble di archi e fiati dell’ORT il secondo.

Le analogie finiscono qui. In tutti gli altri aspetti, i due spettacoli sono completamente diversi, e non poteva che essere così: uno è figlio di un’indagine approfondita e disillusa dell’animo umano; l’altro nasce dal desiderio di far rivivere un teatro che fu, adattandolo al pubblico contemporaneo.

Se Murgia lavora di sottrazione, spogliando il nobil Don Giovanni per privarlo delle sue maschere, Riccio ricalca con abiti, movenze e toni, il barocco settecentesco dell’opera, aggiungendo se mai un fiocco o un tulle, piuttosto che togliendolo.

Il Don Giovanni di Michela Murgia è un ingannatore, vigliacco e senza scrupoli, quello di Alessandro Riccio è esilarante, coraggioso, pieno di fascino. Eppure, entrambi partono proprio dalla stessa versione dell’opera, quella più fortunata, che ha visto la collaborazione del librettista italiano Lorenzo Da Ponte col ben più celebre compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart.

Due versioni così divergenti possono piacere alla stessa persona?

La domanda me la sono posta, sempre nel suggestivo abitacolo della Panda, dopo aver scritto di entrambi gli spettacoli, e la risposta è arrivata solo quando Don Abbondio di Brunori era finita già da un pezzo. Sarà che ho ancora la sindrome dell’impostore, quando scrivo di teatro. Alla fine però mi sono convinta che sì, possono piacere eccome.

Basta distinguere il peso dato alle parole dalla pesantezza delle parole, e la leggerezza di una risata dalla lettura frivola e superficiale.

D’altronde si va a teatro per entrare nelle teste degli altri e mettere in discussione sé stessi: se due spettacoli ci riescono, funzionano. E se uno ha la fortuna di vederli entrambi, tanto meglio.

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