Due ballerine si muovono ondulatamente, morbidamente e di spalle, ai margini di una scena oscura, appena illuminata da un alone di verde fosforescenza. Le performer hanno una lunga criniera, avamposto di copertura rispetto a un pubblico a debita distanza di gravità.
I corpi, le voci, gli oggetti, inondati da luci stroboscopiche e da giochi di luci psichedeliche che arricchiscono il palco di una dimensione altera e in-comprensibile, sono i concretismi centrali (di accenni di musica concreta, fra le indistinte sonorità). Lo show si (s)muove tentando di scuotere le certezze acquisite dagli ingannevoli schemi ricorrenti, tra canto, ballo, invocazioni subliminali di desideri fruttuosi, sensorialità esaltate, poesia comunicata alternando l’italiano ad uno spagnolo d’occasione, di quelli che danno la sensazione di essere stati imparati seduta stante, inneggiando al sublime tocco delle imperfezioni. Non se ne qualificano (di certezze), lungo l’asse verticale e orizzontale sul quale si muovono, calpestando le luci e le zone di ombra, le performer.
La mano sinistra, per secoli è stata considerata nefasta, disumana manifestazione del diabolico, il mancino, che per natura sembrerebbe essere dedito all’occulto. Ed è di una infestazione dell’occulto che a tutti gli effetti stiamo parlando. La magia governa il caso andante, tra qualche ridondanza audio-sensitiva di troppo con dilatazione di sorta, tra l’avanguardia onirica e la pretesa di voler assemblare un mix fuorviante di tecnicismi e poeticismi sparsi senza definizioni precise. Quando a mettersi al centro della scena vi s’interpone Silvia Calderoni, il livello di fusione tra parola, senso recondito insito e plasticità della forma, convergono in un magma di comunicatività che alza il livello e i livelli. Alcuni passaggi funzionano più e meglio di altri, i balli meglio dei canti, il dialogato meglio del parlato, mentre il subliminale confonde i piani di ricezione, sparigliando ogni vana pretesa di ragione. Questo livello di sperimentazione multimediale e polifonico, evidenziato nell’elettronica, appresso a ritmi di distorsioni, trance e incantamenti destabilizzanti, allucinazioni, filiazioni letterarie, ci arriva come vortice sconnesso, che seduce e inganna, senza riuscire a coinvolgere attivamente. Sul più bello, quando le risonanze poliritmiche raggiungono il suo apice, quando quel “touch” invade tutto lo spazio compresente come un loop emotivo, un invito mai rassegnato a ridisporsi nel flusso di umane sensazioni, e quando un ultimo ballo sensuale raccoglie i resti, semovente, nella circolarità della scena, quel crescendo vanamente atteso implode. Forse le parole di senso o del vuoto di senso, che in apertura e in chiusura, precisano le vacue intenzioni di una comunicazione bistrattata, sul grande schermo al centro della scena, ci vogliono lasciare il dubbio che sia tutto effettivamente qualcosa di alchemico. E incomprensibile. Oppure che possa comprendersi raccogliendo le intenzioni. Rimane il dubbio, uno dei dubbi. Forse perché bisognerebbe imparare ad assaporare meglio le istintuali sensazioni, da trattarsi come salutari pulsatrici di vita.
Federico Mattioni