Anna Paola Vellaccio torna a vestire i panni della castellana di Àgota Kristóf, una delle interpretazioni che le hanno regalato maggiori soddisfazioni lungo il suo percorso di attrice.
Parliamo de La Chiave dell’Ascensore, storica pièce teatrale della scrittrice ungherese, proposta con successo al Florian Espace nello scorso fine settimana, sull’onda della Giornale Internazionale per i diritti delle donna.
La prima notazione da fare riguarda il pubblico, la sua reazione e relazione con quest’opera. Si tratta di un lavoro che produce un impatto forte sugli spettatori, un coinvolgimento profondo che non si stempera nel tempo. Ne dà conferma quest’ultima messinscena che ha conosciuto una vivace partecipazione anche nel Post-Play, l’incontro di approfondimento e dialogo con gli artisti che segue alla messinscena della prima.
La regia di Fabrizio Arcuri lavora decisa sull’impatto visivo, procedendo per una concentrazione dello sguardo. La finestra immaginata nel testo dall’autrice viene ripensata registicamente e proposta a favore di pubblico, trasformandosi in quello che così appare uno schermo o un quadro pittorico di grandi dimensioni, sospeso a mezza altezza, privando quasi di gravità ciò che avviene in scena.
Anche l’azione dell’attrice risulta delimitata, elaborata su di una linea di metodica privazione. La sua sagoma viene inizialmente confinata in un angolo del riquadro visibile, per giunta collocata di spalle. E’ in questa modalità rovesciata, sulla linea di questa comunicazione interrotta che scorre la prima parte del monologo: la fiaba melanconica di una dama proveniente da un evo lontano, una cultura sepolta nei secoli nella quale era pensabile l’attesa eterna del cavaliere in arme e del suo ritorno promesso. Ma il racconto che segue non interrompe la poetica imbastita.
L’attrice si apre al nostro sguardo, ora è una castellana contemporanea, abita un palazzo imponente e pretenzioso costruito dal marito, un ambizioso, impegnatissimo architetto. Perdurano gli sfondi ipnotici della scena-quadro, le evoluzioni cromatiche di una sostanza atmosferica densa di nebbie e presagi, ma ogni nota vira ora verso toni più acri. Pur conservandosi, la scena vuole annullare per prima ogni illusione: in alto si fanno visibili i fari bianchi, simili a sinistre luci di emergenza; le distorsioni microfoniche non attivano più eco languide, piuttosto intervengono repentine sotto forma di incursioni spettrali a rendere sensibile il dolore corporeo in cui la protagonista sprofonda inesorabilmente.
La pièce di Kristóf vive di questo equilibrio perturbante tra serafica compostezza – quasi un arcano incantamento – e la cieca malvagità che alberga nel cuore dell’unione uomo donna. Ancor prima, però, il suo germe alligna e fermenta nelle profondità dell’animo umano indistintamente, misteriosamente intrecciato con l’istinto vitale. C’è un afflato universale, che contiene la questione di genere ma non si esaurisce in essa, come è visibile in una serie di livelli distanziatori che destituiscono una lettura troppo letterale della vicenda: dalla cornice fiabesca a rapidissimi lampi di comico, fino al tema finale della voce, così intimamente intessuto con la delicata questione della lingua che caratterizza il vissuto dell’autrice (transfuga nel ‘56, francofona d’adozione in seguito ad una mai perfettamente risolta integrazione in Svizzera).
Paolo Verlengia
CREDITS:La chiave dell’ascensoredi Agota Kristóftraduzione di Elisabetta Rasycon Anna Paola Vellaccioe la partecipazione di Umberto Marchesaniallestimento e regia di Fabrizio Arcuriassistente alla regia Francesca Zerillicura Giulia Baselfoto di scena Roberta Verzella Tiziano Iontagrafica Clarice, Antonio Stellauna produzione Florian Metateatro-Centro di Produzione Teatrale in collaborazione con Accademia degli Artefattisi ringrazia il Teatro di Roma