Titolo e insieme parola ossessiva da non pronunciare, il “panico” è la condizione limite con cui i tre personaggi di Mika Millyaho si troveranno a fare i conti, in un crescendo autoanalitico dall’involontario effetto comico.
L’ambiente scenico è l’isolato appartamento-vetrina di Max, nel quale farà irruzione Leo, amico distrutto da una crisi sentimentale. Ecco la scintilla, Max si improvviserà terapeuta per risollevare il suo ospite forzato, ma subito subentra l’elemento di disturbo Joni, fratello di Max e conduttore di un noto programma televisivo trash.
L’efficace spazio ritagliato dallo scenografo Dimitri Milopulos diventa un luogo di amena introspezione e confessione. Sarà attraverso il cameratismo maschile, il continuo buttare tutto sullo scherzo, le ubriacature e il contatto fisico, che si riusciranno ad aprire terapeutiche finestre interiori, flash di lucidità in cui ognuno sembra per un attimo ritrovare se stesso. L’autoironia, scaturita dai legami di intima amicizia, sgretola la gabbia-rifugio dei protagonisti: la facciata perfezionista di Joni, la carriera oppressiva di Leo, e l’appartamento divenuto prigione per Max. Gli iniziali problemi di Leo hanno innescato un processo collettivo di apertura, e gli improbabili approcci analitici alla fine mettono in luce la comune impasse esistenziale.
La regia di Irene Aho si basa su un riuscito ritmo incalzante, ottima la recitazione che diverte e trascina.
Alessio Nencioni