di Williams Tennessee
Regia: Arturo Cirillo
Con: Arturo Cirillo, Milvia Marigliano, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto
Scene: Dino Gessati
Costumi: Gianluca Falaschi
Luci: Mario Loprevite
Produzione Tieffe Teatro
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Quando nel 1944 a Chicago Tennessee Williams mise in scena The zoo menagerie e con esso gran parte del suo dramma familiare, sua madre Edwina non seppe cosa rispondere a Laurette Taylor (l’originaria Amanda Wingfield) che le chiese come la trovasse nelle sue vesti. Era chiaro, come da manuale di psicologia, che non riconobbe assolutamente suo il dramma che era su quel palcoscenico.
Quindi allestire l’opera che decretò il primo vero successo del drammaturgo del Mississipi vuol dire tener a mente dell’io autobiografico che invade, tra l’altro, quasi tutte le sue piéce in maniera differente; scrivere per il teatro – dice lo stesso Williams – costituì sin dalla giovinezza un’ancora di salvezza alla minaccia patologica e morbosa, sempre in agguato, dei fantasmi familiari e propri della sua intimità.
Tanti gli allestimenti teatrali, importante la trasposizione cinematografica de “Lo zoo di vetro” in cui suggestioni poetiche e trasognanti insieme con una dimensione temporale rivissuta come frammenti di ricordi, investono la mediocre realtà di fondo, quella di un quartiere di piccoli impiegati ed operai del sud America.
Nella messa in scena di Arturo Cirillo il background della cultura sudista – essenziale per poter comprendere il teatro di Williams – è assente. Mancano le scalette, tipiche di quelle casette nelle quali figlie di grandi proprietari si consumano nei suoi drammi, mancano le melodie malinconiche di quei tempi e luoghi. Al loro posto le musiche di Tenco, vecchi dischi che appartenevano al “grande assente” ovvero al padre di Laura e Tom e marito di Amanda, contrastano quelle provenienti dalla discoteca Paradise, nella loro stessa strada, stavolta evocate da quelle disco anni duemila. Una trasposizione che esula da precise coordinate spazio-temporali, al fine di restituire quel “grumo di sogni” e di venature nostalgiche che costituiscono la più intima natura dei protagonisti di Williams. Nessun vetro come suggerito dallo stesso autore copre la scena, stavolta le quinte sono ben visibili e scarne, una moquette verde scura con una striscia bianca ai bordi delimita la reale scena, l’ambiente domestico. Pochi gli arredi, si respirano la presenza materna ingombrante, i silenzi autistici di Laura e l’aggressività con la quale Tom (Arturo Cirillo) comunica con la stessa Amanda, in una perfetta stasi fra sensi di colpa verso la famiglia (e per riconoscersi esattamente come suo padre) e una voglia frustrata di andare via. Fuori al perimetro bianco, dei bauli per strumenti musicali sono mangiadischi che Laura adopera per ascoltare le sue vecchie melodie, emblema del suo vitreo mondo. “Lontano, lontano” non a caso definisce esattamente ciò che già Tom, voce narrante del dramma, dice all’inizio “Il dramma è memoria”. Tempo dell’anima, dunque. Quella di Amanda (Milvia Marigliano) è ancorata alla sua gloriosa gioventù, quando torme di giovanotti la corteggiavano; difatti – e lo si vedrà quando sfoggerà un abito vecchio di decenni, indossato al momento dell’incontro fatale con suo marito – ha serbato un che di infantile leziosità che si riversa in un sotterraneo confronto con la figlia Laura, dalla condizione del tutto opposta alla sua. Difficile è esprimere cosa significhi disagio per la giovane donna. Williams nelle indicazioni dice che il suo essere zoppa non è più che accennato nel dramma ma ne costituisce in verità il fulcro di tutto il suo dolore. Giacché esserlo implica non avere una turba di pretendenti e neppure riuscire a diventare donna lavoratrice; sentirsi diversa ed inferiore più che esserlo diviene il suo silenzioso dramma che, contro l’aggressività con la quale il fratello Tom esprime il proprio, si consuma osservando minuscoli animaletti di vetro che serba gelosamente; questo zoo di vetro, quali cristalli dalla luce riflessa che rimanda a un mondo perduto, armonia familiare mai assaporata, Cirillo riesce a renderlo attraverso una sapiente variazione della luminosità scenica.
Laura è altro, è quei dischi vecchi, così come Amanda è distante dal presente. Il grande assente cioè il padre che “s’innamorò delle distanze” aleggia sospeso su questa casa, ormai stilizzata rispetto alla tradizionale scenografia.
Un armadio – altro simbolo dai plurimi significati — si situa quasi sul fondo, aperto opportunamente quando Jim (Edoardo Ribatto) l’ardito giovanotto, irrompe in questa casa come unico sguardo esterno e quindi “emissario del mondo della realtà dal quale ci eravamo in un certo modo separati”, (Tom).
Tutto resta sospeso. La ripetitività ciclica di gesti vuoti, ad esempio la chiamata al pranzo di Amanda, la preghiera detta a mente come automatismo, la rigorosa finzione che lo stesso autore impone alla regia, ovvero quello di esibire in scena finti suppellettili senza alcun reale alimento, esigono la stessa interpretazione di fondo: la realtà è null’altro che un fastidioso e logorante contenitore delle proprie prigioni. La lontananza, la distanza, la memoria costituiscono l’ossigeno dei tre Wingfield; verrebbe da pensare a Cechov e forse, non è banale. Perché fu proprio l’autore russo, letto nelle estati della sua giovinezza, a folgorare Williams e perciò a destinarlo alla scrittura teatrale. Da apprezzare per questo i silenzi che intervallano la musica e i dialoghi e ci riportano alle atmosfere cechoviane, per antonomasia pregne di quel senso tragico e insieme elegiaco di distanza Nello “Zoo di vetro” e nei successivi testi i retaggi di Cechov si delineano con maggior pathos e morbosità che costituiscono una compagine della drammaturgia di Tennessee Williams.
I personaggi non spariscono mai dal palcoscenico, escono dal perimetro bianco per sedersi immobili ai lati o come Tom, verso il fondo. Sono essi stessi vitrei, fragili. “Sempre in attesa di colui per il quale viviamo” recita all’inizio il protagonista, anticipando ciò che accadrà con Jim. Jim è colui il quale rompe l’unicorno di Laura, il suo animaletto di vetro prediletto, omologandolo finalmente a tutti gli altri cavallini, gesto che corona il bellissimo dialogo posto appena prima della conclusione e che potrebbe significare per la ragazza l’abilitazione al mondo reale, a riscoprirsi sorprendentemente bella nella sua diversità, mediante il buffo appellativo di Rosa mia, con cui Williams allude a sua sorella Miss Rose. Laura sta a Tom, come Rose sta a Tennessee (e Tom, fra l’altro, è il suo vero nome), presenza costante nella sua esistenza, ora motivo di sensi di colpa mai sopiti (Rose era affetta da una patologia psichica e subì in seguito la pratica della lobotomia), ora unica e sola compagna femminile, anima imprescindibile da se stesso.
Monica Piseddu cesella il personaggio di Laura rendendo il suo tormento silenzioso e interiore con lucidità e con una sorta di orgogliosa rassegnazione, senza concessioni patetiche, particolare non secondario in quanto fa dell’infantile briosità e della “caotica vitalità” di Amanda il giusto rovescio; così al loquace silenzio di Laura si contrappone la chiassosa madre che a mo’ di goffi lapsus cerca di camuffare il difetto della figlia, restituendo ripetutamente, con inconsapevole crudeltà, un’immagine ingigantita del problema. Una dura legge della compensazione diviene così la sua proposta di soluzione, esattamente come gli ingombranti ricordi della sua gloriosa giovinezza infliggono ai figli i duri colpi. Non l’aggressività di Tom, non la strenua mitezza di Laura e neppure il brio tutto scanzonato dell’ospite Jim riusciranno a strapparla alla vanità del passato, così come l’addio di quest’ultimo non romperà gli altri animaletti, scudo e prigione di Laura.
Arturo Cirillo riprende la mirabile tradizione di Gerardo Guerrieri, creando suggestioni di luci che ci aiutano a prendere parte all’introspezione psicologica dei personaggi. L’ambiente è, come detto, levigato, pochi elementi essenziali ed emblematici, sospeso nel tempo e privato dei retaggi della cultura ed architettura sudista, le quinte laterali spoglie ci tolgono quel senso di realismo, e sembra quasi ci restituiscano la consapevolezza di una profonda e urgente relazione fra Tennessee Williams ed un luogo privilegiato chiamato Teatro.