L’11 aprile del 1961, a Gerusalemme, si apre il processo all’ex tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann. Localizzato un anno prima in Argentina e prelevato contro la volontà del governo locale dal Mossad, Eichmann fu chiamato a rispondere davanti al mondo e al neo stato di Israele, alle accuse di crimini contro il popolo ebraico e contro l’umanità.
Il pubblico ministero, Gideon Hausner, non seppe e non volle rinunciare a una rappresentazione sensazionalistica di Eichmann, ritenendo, erroneamente, che avrebbe giovato alla tesi accusatoria. Alla mostruosità dell’olocausto non si poteva che presentare l’incarnazione del male assoluto, ma quando l’imputato prese posto nella sala, al posto di fauci, zanne, artigli e occhi mefistofelici, apparve un uomo con le fattezze di un qualunque impiegato di mezza età.
Oltre a indugiare sul cliché dell’aguzzino sadico e spietato, Hausner si spinse a rappresentare Eichmann, fingendo di ignorarne la modesta posizione gerarchica, come la molla del genocidio: «… era la sua parola che metteva in azione le camere a gas; lui sollevava il telefono e i vagoni partivano verso i centri di sterminio; era la sua firma a suggellare il destino di migliaia di persone».
Alcuni capi di imputazione non furono altro che pretesti per moltiplicare le testimonianze sulla barbarie nazista, lasciando in ombra il ruolo dell’imputato.
Nelle centoventuno udienze del processo sfilarono un centinaio di testimoni per l’accusa, tutti ansiosi di raccontare la loro storia d’orrore. Alcune deposizioni assunsero quasi i caratteri di conferenze sull’olocausto, altre riproposero stralci di memorie di deportazione e di prigionia già da tempo pubblicati. Incurante del richiamo della corte a non tracciare dispersivi “quadri generali” e a rientrare nei binari tradizionali della procedura penale, Hausner si ostinò a chiamare a deporre testi il cui legame con Eichmann era talvolta vago se non evanescente.
Il processo serviva anche a ribadire la legittimità dello stato di Israele, incentrando su quel calvo omuncolo la responsabilità diretta del genocidio. L’accusa evitava però di coinvolgere il popolo tedesco, visti i buoni rapporti con il cancelliere Adenauer, di approfondire il ruolo dei consigli ebraici nelle deportazioni e di tacere l’imbarazzante partecipazione dello stesso Hausner ai negoziati avviati tra nazisti e sionisti in Ungheria nel 1944.
Tali omissioni indignarono Hannah Arendt che denunciò ai lettori del “New Yorker” gli intenti mistificatori del processo, asserendo che il popolo ebraico durante il Terzo Reich aveva dovuto difendersi da due terribili nemici: i nazisti e i consigli ebraici, soprattutto quelli più permeabili agli ideali sionisti. Gli uni animati da un odio inestinguibile verso gli ebrei, gli altri disposti a tutto pur di compiacere le autorità, entrambi vittime di un collasso morale generato dallo stato totalitario hitleriano. Attirandosi gli strali del World Jewish Congress, scrisse: «Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, quasi senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra. La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni. […] circa la metà si sarebbero potute salvare se non avessero seguito le istruzioni dei Consigli ebraici».
La sua partecipazione diretta al processo le servì per scrivere “La banalità del male” dove tratta l’idea che il male perpetrato da Eichmann – come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della Shoah – fosse dovuto non ad un’indole maligna ben radicata nell’anima, quanto piuttosto ad una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni.
All’inizio del processo Eichmann dichiarerà di non voler prestare giuramento – in quanto «ho imparato che è la sola cosa che non vada mai fatta».
Con questo rifacimento Santarelli propone un’interpretazione più profonda e complessa del genocidio ebraico. Chi era Eichmann? Un mediocre burocrate colpevole di non saper immaginare a cosa servissero i suoi atti o uno psicotico sadico inghiottito dalla macchina totalitaria?
Tipico fu l’ultimo giudizio che espresse sul conto di Hitler… «avrà anche sbagliato su tutta la linea, ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e di salire dal grado di caporale dell’esercito al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone (…). Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli».
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di Giuseppe Santarelli
regia Gabriella Folletto
con Omero Affede, Francesco Conti, Luca Marani, Mariangela Martino, Marco Marzari, Marco Parisi, Carlo Zerulo