La routine domestica e quotidiana di un transessuale, nel claustrofobico contesto del salotto di casa animato soltanto dalle frequenti telefonate di sconosciuti che cercano qualcun altro, suona la playlist delle canzoni che rispecchiano il suo stato d’animo (Sergio Endrigo, Mina, Peppino di Capri…).
Le reazioni di Jennifer (Antonio Cranco) rispetto ai due impersonali coinquilini sono parallelamente opposte: il rapporto con la radio è complice, intimo, accettando la musica leggera italiana degli anni ’70 come triste rappresentazione dei suoi umori, riconoscendovi le proprie stesse aspirazioni, speranze e sogni; l’approccio al telefono è analogo, nell’infinita attesa di una telefonata da parte dell’innamorato Franco, ma il telefono illude e frantuma le speranze, rompendo la solitudine di Jennifer con comunicazioni distanti e indesiderate, impassibili e aliene nelle voci senza volto di Alice Corni, Giulio Liberati e Fabio Scudellaro, oltre allo stesso regista Roberto Briatta.
Neanche l’unico altro personaggio, Gabriele Valente/Anna, riesce a riscattare Jennifer dalla sua solitudine. Anzi, se la musica della radio fa da specchio alla sua malinconia, Jennifer riconosce in Anna l’offerta di uno specchio meno torbido, l’immagine della razionalità che può aiutarla ad accettare che il suo Franco non chiamerà, e preoccuparsi piuttosto del maniaco omicida che sta decimando i transessuali del suo quartiere; ma la sua ostinata speranza è più forte.
Cranco/Jennifer si aggira sul palcoscenico stretto nel guscio della sua pretesa femminilità, e nel guscio appena più grande della sua prigione/salotto. Il primo, l’attore, dimostra grande dimestichezza con un ruolo drammatico, riuscendo a intrattenere e divertire; la seconda, il personaggio, si dimena come un animale in gabbia aspettando il segnale della salvezza nella telefonata di Franco.
Jennifer preferisce togliersi la vita, piuttosto di accettare l’unico appiglio razionale che le viene fornito dalla comparsa di Anna, poiché troppo fedele all’immagine che ha costruito di Franco. Il regista Roberto Briatta, al termine della sua rilettura del primo dramma di Annibale Ruccello, non dimostra altrettanta fedeltà: il suo finale è vago, indeterminato, poeticamente non-finito.
Un omaggio all’opera di un grande drammaturgo italiano, cui la prematura scomparsa ha interrotto quella vaghezza, quella indeterminatezza e quella poesia che appartengono a personaggi come Jennifer.
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Le cinque rose di Jennifer
Di Annibale Ruccello
Adattamento e regia Roberto Briatta
Assistenza alla regia e luci Rebecca Agostinelli
Con Antonio Cranco e Gabriele Valente
Voci fuori scena Roberto Briatta, Alice Corni, Giulio Liberati, Fabio Scudellaro
Costumi di Monica Cafiero
Coreografie di Anna Cuculo
Musiche di Roberto Carelli