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Victor

Andato in scena il 16 febbraio 2018 all’Auditorium Centro Sociale di Salerno

di DispensaBarzotti

liberamente ispirato al Frankenstein di M. Shelley.

con Consuelo Ghiretti, Riccardo Calabrò, Rocco Manfredi

regia di Alessandra Ventrella

Premio delle Giurie Direction Under 30 2017 – Premio Strabismi 2017 – Premio Casa Con Vista Fringe Torino 2017

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Per la prima volta in Campania, unica data sul territorio regionale, “Victor”, l’ultima produzione della compagnia DispensaBarzotti, è il terzo appuntamento della stagione Mutaverso Teatro curata per il terzo anno consecutivo da Vincenzo Albano.

Victor” è, per DispensaBarzotti, il primo lavoro ispirato a grandi romanzi dell’“orrore” e il primo capitolo di un’ideale “Trilogia dell’Immortalità”, che nasce dal desiderio di raccontare le potenze incontrollabili che abitano i nostri corpi.

«In ‘Frankenstein’ esistevano naturalmente immagini, atmosfere ed emozioni che stavano dentro di noi prima del teatro, come persone, e che avevamo l’urgenza di provare a raccontare – spiega la compagnia – Abbiamo pensato tanto all’abbandono. Non accettare la fine. Voler ridare vita e anima a tutto, continuamente, ad ogni costo. Abbiamo guardato al rapporto tra Victor Frankenstein e la sua creatura come ad una metafora dai molteplici significati».

*Due gambe spezzate tentano di alzarsi, i piedi cercano di sollevarsi da terra ma affondano nel pavimento. Gli occhi annebbiati stanno per cedere, mentre la luce continua ad entrare da una finestra che cola, goccia dopo goccia. Tutto piange intorno a questo corpo, inondando una stanza. Eppure Victor è ancora vivo, immerso in un acquario, come un pesce sul punto di morire in preda alle convulsioni. C’è una creatura fradicia, di notte, che lo viene a trovare, riportandolo a galla; meravigliosa evoca ricordi lontani o futuri mai realizzati, illudendolo di trovare riparo. Le cose che lo tengono in vita sono le stesse che lo fanno sprofondare. Victor osserva immobile il congelarsi del tempo da sotto lo strato di ghiaccio che lo imprigiona. Qualcuno vada e appicchi il fuoco*

Il pubblico numeroso entra ordinatamente e si predispone nel migliore dei modi a vivere l’emozione di una nuova avventura.

Il sipario è chiuso. La quarta parete, in questo caso di velluto verde, mantiene la sua funzione con la promessa di far sbizzarrire la fantasia dello spettatore.

Buio. Mentre il sipario si apre incomincia il rumore della pioggia.

In un angolo del proscenio, di spalle, un uomo con un ombrello aperto. Piove e l’acqua cade a terra intorno a lui.

Interrogativi? C’è il tempo di porseli perché la scena dura istanti infiniti, poi lentamente l’uomo chiude l’ombrello, quasi al rallentatore, e si guarda intorno.

Forse vuol essere la rappresentazione dei pensieri? Eppure, i pensieri nella testa di ciascuno corrono e vorticosamente si intrecciano accavallandosi l’un l’altro. Ma qui tutto è ponderato, con stupore accolto ogni piccolo movimento che si vorrebbe attribuire alla magia perché arrivano dei bicchieri, che scorrono sul palco seguendo solchi di luce mentre tutto è ancora al buio e in silenzio, e ancora dal divano escono oggetti perduti in un cumulo di terra.

Un fiammifero si accende e l’aria poi lo spegne.

È l’antico gioco degli elementi? Acqua, terra, aria e fuoco? Può essere tutto. Ciascuno può inserire le parole che pensa e scrivere la propria drammaturgia.

La luce illumina al centro un divano bianco, appaiono due gambe con relativi piedi e due braccia con mani che si agitano poi quasi rassegnate si abbandonano inermi.

E due scarpe bianche che ritrovano i piedi a cui erano destinate e poi dal divano esce interamente una donna che sembra senza vita.

Una grande vetrata in penombra viene prepotentemente in evidenza dietro al divano, in stretta correlazione con il divano, che diventa sempre più protagonista della storia, quasi un quarto personaggio, contenitore di oggetti, scatola del tempo e buco nero che ingoia persone, per risputarle fuori a singhiozzo.

Piove anche sui vetri e una bara bianca ingombra l’immaginario. Una donna, tulle e candelabri potrebbero essere pedine su una scacchiera del “macabro fantastico” di un film dell’orrore.

Ognuno può elaborare ciò che vuole, far rivivere i propri fantasmi, dare corpo alle ombre.

Al silenzio in sala siamo abituati perché tutta l’attenzione è rivolta alle parole che vengono pronunciate sul palco: quindi bocca chiusa ed orecchie spalancate.

Ma nel caso di “Victor” lo spettacolo presentato dalla Compagnia DispensaBarzotti il silenzio si è prolungato anche in scena.

Cosa dire? È uno spettacolo senza parole. Qualcuno potrebbe definirlo Pantomima.

Mettere in scena emozioni solo con piccoli movimenti del volto o del capo è prerogativa del piccolo schermo. Al teatro è riservato il gesto ampio, esagerato, che riveli l’intenzione a cui segue la battuta, eppure anche quei piccoli piccolissimi, lentissimi movimenti hanno indotto, in qualcuno, suggestioni e riflessioni arcane.

Lontano dalla frenesia del girotondo di parole che distraggono la mente, la pausa forzata ha scavato nel profondo, come la goccia nella roccia.

Bravi i tre attori nella prova plastica, come ginnasti funerei si muovono senza sforzo apparente, creando momenti di poetica teatrale, frammenti di ipotetica magia.

Le maschere grottesche hanno reso ancora più greve l’atmosfera cimiteriale che già aleggiava nell’aria. Un esercizio che sicuramente ha dato agli attori gratificazioni e stimoli, che poco sono arrivati in sala.

La ricerca teatrale sperimenta nuovi linguaggi, anche solo gestuali e mimici, ma se nella seconda metà del Novecento aveva funzione di provocazione e di ribellione a schemi paludati e irrigiditi dalla consuetudine e dalla borghese accettazione della realtà, a prescindere dal messaggio che arrivava in platea, oggi è necessaria una comunicazione più aperta e comprensibile.

Anche se l’arte non deve rispondere a canoni di chiarezza, e le metafore sono il pane quotidiano, ci vorrebbe più coraggio da parte degli spettatori…

Il dibattito a fine spettacolo, retaggio dell’avanguardia teatrale degli anni ruggenti della Sperimentazione, permetteva, anzi stimolava uno scambio e un incontro tra artisti e spettatori, con conseguente declinazione del paradigma teatrale nelle sue più recondite ed inaspettate soluzioni.

Applausi ma il pubblico è abituato ad applaudire sempre.

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