di Sonia Antinori
regia Daria Lippi
con Silvia Gallerano
e con Sonia Antinori, Daria Lippi
assistente regia Juliette Salmon
scene e costumi Emanuela Dall’Aglio
disegno luci Francesco Dell’Elba
disegno sonoro Juliette Salmon
produzione Teatro Metastasio di Prato
con Faa (Fabrique Autonome des Acteurs), Malte (Musica Arte Letteratura Teatro Etc.)
e Otse (Officine Theatrikès Salento Ellada), Reset
PRIMA ASSOLUTA
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Siamo negli anni ’70, precisamente nel ’68. Si apre a noi l’immagine di un salottino dalle tipiche tinte forti e contrastanti, linee pulite ed essenziali. Una vecchia macchina da scrivere fa da sfondo a ricordarci che ciò che vediamo è la proiezione in immagini, musica, movimenti e monologhi di una lunga lettera che la figlia decide di scrivere al padre, il quale ha vissuto a pieno l’epoca della rivoluzione e in quegli anni concepito sua figlia, e delle tante lettere scritte dal padre alla figlia nel lungo anno trascorso in carcere.
Non c’è mai stato dialogo fra loro ed ecco che quella macchina da scrivere sempre illuminata diventa protagonista e strumento essenziale.
Si definiscono da subito i ruoli di questo lungo monologo, che diventa un racconto di più epoche, un confronto fra chi eravamo e chi siamo diventati: Silvia Gallerano è l’attrice, o meglio l’Attore, Daria Lippi, la regista, è il Regista e l’autrice Sonia Antinori è l’Autore.
Tre donne, tre ruoli diversi, tutti però parte dello stesso ingranaggio che genera un confronto rabbioso e desideroso di attenzione, di amore, che la figlia ricerca disperatamente di avere con il padre.
Si alternano nel racconto, come fossero parte di una sola anima, la coscienza, la ragione e il sentimento che si passano la palla ognuno tirando fuori ciò che ha dentro.
I movimenti sono imperanti in questo spettacolo, il corpo e la gestualità ci ricordano gli anni di piombo, le stragi, le esplosioni e gli omicidi, le fabbriche, le catene di montaggio, i libri e i giornali, il desiderio di ribellione caduto nel vuoto, nel buio come ci viene mostrato alla fine.
La narrazione storica della figlia si intreccia con la narrazione della Storia, della nostra Storia, che ci viene presentata quasi come spot pubblicitario. Piccoli intervalli inseriti nello spettacolo che avvalorano il dolore provato dalla figlia che si sente naufragare insieme al padre senza che però lei abbia realmente vissuto il suo tempo, ma solo subìto; ci ricordano il balzo storico che abbiamo fatto in pochi anni e che ci ha proiettati in un futuro anacronistico, in un’incongruenza sociale e politica che niente ha a che vedere con gli ideali in cui quel padre credeva e in cui si era perso, e con lui tutta la sua generazione.
E mentre la linea del tempo si fa chiara con cambi di abito in tute da fitness, capigliatura punk e musica pop, il futuro sembra continuare a chiedere con rabbia attenzione ad un passato che è andato avanti senza sapere dove, che si è scontrato con un presente esasperato e in totale contrasto con ciò che era.
Si mescolano nazionalità, con accenti francesi e tedeschi, si ingarbugliano vite e si dimostra come tutti hanno fallito, come né la geografia o lo status sociale hanno dato un valore aggiunto.
L’ipocrisia del passato è diventata sempre più ovvia con l’andare del tempo e la lontananza tra una generazione e l’altra sì è fatta voragine che ha fatto naufragare ogni buon ideale, di qualsiasi orientamento politico, religioso o morale.
Persino la verità, o meglio le verità, che la figlia districa nella narrazione e rincorre con fervore si fanno parole mai dette, dialoghi mai avuti e giunti a lei forse troppo tardi, attraverso una macchina da scrivere che ha fallito il suo scopo. Non c’è stata comunicazione.
Passato, presente e futuro rivelano ognuno le proprie mancanze.
Il Regista decide che sia fatto buio in scena e tutti cadiamo nel “Naufragium” di Sonia Antinori.