di: Henrik Ibsen
traduzione, adattamento e regia di: Andrée Ruth Shammah
con: Filippo Timi, Marina Rocco (nel ruolo di Nora)
con la partecipazione di: Mariella Valentini, Andrea Soffiantini, Marco De Bella, Angelica Gavinelli, Elena Orsini, Paola Senatore
aiuto regia: Benedetta Frigerio
assistente allo spettacolo: Diletta Ferruzzi
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Sono passati 137 anni dall’uscita del dramma di Ibsen, ed oggi come allora è ancora attualissimo ed oggetto di dibattiti. Un’opera basata sulla vita di personaggi comuni, nelle loro verità e nelle loro mancanze, che pone al centro una questione morale sul ruolo della donna.
La regista milanese Andrée Ruth Shammah, prova a dare una sua interpretazione singolare, concentrando l’attenzione sulle figure maschili, sulle loro identità, interpretando il testo in maniera inconsueta, affidando il ruolo di “carnefice” alla protagonista femminile, mentre il trio di uomini di contorno rappresenta la vittima, il maschio messo alla prova dalle circostanze, dalla società, dalle vicissitudini della vita e, soprattutto, dalle nevrosi di Nora. Filippo Timi, attore poliedrico, versatile ed incontenibile, si fa in tre, incarnando Torvard, il dottor Rank e il ricattatore Krogstad, nelle loro differenti sfumature psicologiche, ben caratterizzate e distinte tra loro, saltando letteralmente nelle parti di uno o dell’altro. Il suo carisma sul palco ed il suo interloquire con il pubblico, non riescono però a distrarre l’attenzione da Nora, interpretata da Marina Rocco; è lei la padrona della scena, è lei la “bambola”: moglie di un avvocato in piena scalata sociale, madre di tre figli, una figura molto contraddittoria, all’apparenza un pò svampita, come se fosse una bimba capricciosa, piena di desideri, di voglia di giocare e divertirsi, con la convinzione però degli obblighi che le impone il suo ruolo, ovvero assecondare i desideri del marito ed i canoni dell’epoca, impersonando una moglie rispettosa ed una madre attenta ed amorevole. Scopriamo poi nel corso della storia che in realtà lei si sente prigioniera della sua gabbia, in continua attesa della “cosa meravigliosa”.
Quest’opera di Henrik Ibsen, incentrata sull’epoca vittoriana, è conosciuta come il più famoso dramma borghese del teatro europeo, rappresentando, in un certo senso, un manifesto femminista, ovvero una critica a quel tipo di società borghese, meschina ed ipocrita, attaccata all’apparenza ed al denaro, alla quale una donna tenta di opporsi, ribellandosi e divincolandosi a quelle leggi imposte (ma non scritte) che la tengono rinchiusa come un uccellino in gabbia.
È una mise en scène innovativa, che si serve di spunti molti interessanti: l’attenzione ai dettagli è fondamentale, il gioco dei colori nell’arredamento e nelle scenografie, il rosa tenue, il verde salvia, classici richiami alle bambole d’epoca; lo spazio scenico, allestito da Gian Maurizio Fercioni è studiato in modo tale che tutti possano osservare cosa accade nel salotto, al centro della scena, o nelle altre stanze, che reciti sul palco, o che sia seduto tra il pubblico. Particolare rilevanza, nella sua eterea, muta ed “inquietante” presenza, assume il Destino: una donna, alta, con capelli lunghi e neri, vestita in abiti scuri, una figura che appare e scompare silenziosamente, rimanendo però sempre in disparte. Andrée Ruth Shammah svela di essersi ispirata ai bozzetti che fece Munch per la prima rappresentazione del dramma di Ibsen e di esserne rimasta affascinata. L’adattamento del testo, sempre da parte della regista, oltre a modificare qualche entrata in scena per permettere a Timi di reggere sul palcoscenico 3 parti diverse, sfrutta battute tratte da “La commedia dell’amore” (altro testo di Ibsen), ritorna più volte sull’accostamento di Nora a graziosi animaletti, con epiteti e vezzeggiativi dal mondo animale, principalmente uccelli domestici (quali “colombina”, “canarino”, “fringuellino”, “allodola”) che vivono in gabbia, preannunciando così la sua vera natura, quella di creatura selvatica bisognosa di grandi spazi. La “cosa meravigliosa” che Nora attende con impazienza si rivelerà essere la sua forza interiore, che la spinge a frantumare le catene della prigione dorata che si è costruita intorno, e ad andarsene di casa, abbandonando marito e figli, abbandonando il gioco, tornando ad essere un essere umano e realizzandosi come persona.